Fra qualche giorno ricorre l’anniversario dell’omicidio in galleria di Pietro.
Riprongo molte parole, anche di Pietro stesso, per ricordarlo.
Pietro sei ancora al nostro fianco.
seguono le parole di Katia e Niccolò, di Simona e di Pietro
Cari amici,
portare il proprio dolore all’attenzione degli altri non è una cosa che ci appartiene, ma in questo caso vogliamo fare una eccezione, e spero che ce lo perdoniate, perché questo non può e non deve essere un dolore privato.
“E’ morto stanotte Pietro Mirabelli in galleria in Svizzera” comincia così la mail di Simona (in fondo per intero), e a nessuno credo sia venuto il dubbio che si trattasse di morte bianca, anche se di bianco, di candido, di puro nelle morti sul lavoro non c’è proprio niente…
E’ morto in miniera, Pietro il Minatore. Incidente? No, perché “non si muore mai di incidente. Sul lavoro si muore sempre perché chi ti sfrutta vuole tutto, anche la tua vita” (Pietro – http://www.controlacrisi.org/joomla/index.php?option=com_content&view=article&id=8481&catid=44&Itemid=68).
E’ straziante per chi lo ha conosciuto, perché Pietro nella sua vita ha affrontato, a testa alta, cose che per i più sono inimmaginabili: la dura vita da minatore, le lotte per la sicurezza nei cantieri come delegato rsl, contro i devastanti turni lavorativi, contro il sindacato che firmava accordi usuranti, per un riconoscimento di quei fantasmi che scavano le nostre gallerie di cui si parla solo quando hanno un lenzuolo bianco che li ricopre. Ecco cosa c’è di bianco in tutto questo.
Pietro ha lottato contro l’indifferenza, e grazie al sostegno di persone come Simona, ha trovato spazio per far sentire la voce sua e dei suo compagni di lavoro. Spesso concittadini di quei paesini calabresi, dove non c’è alternativa al lavoro in miniera. Dagli anni ’60 Pagliarelle, il paese di Pietro, un paese di minatori, ha sepolto più di 40 morti sul lavoro. A ricordarlo il <a href=”http://www.failacosagiusta.it/files/minatoritav.htm“>monumento ai caduti</a> voluto da Pietro e inaugurato nel 2003… sembrava una vittoria allora, sembrava che le cose si muovessero. Ricordo i racconti dell’inaugurazione di Simona e Marzia, in quel torrido agosto, dell’accoglienza che la gente del paese gli aveva fatto, a loro che avevano sostenuto la lotta dei minatori in Mugello.
E poi di nuovo il silenzio, spenti i riflettori, si torna in miniera e si torna a morire.
Ho cercato online le notizie pubblicate su Pietro, e mi si è fermato il respire quando ho letto questo pezzo (http://www.arealocale.com/default.asp?action=article&ID=720): “Luciano e Pietro si erano chiesti chi sarà il prossimo, come se fosse una domanda normale. Chi sarà il prossimo morto sul lavoro?”
Il prossimo è stato Luciano, in Islanda nel 2004, e oggi Pietro, in Svizzera, 6 anni dopo.
Dice Simona “Un testardo dei diritti che ultimamente era rimasto ferito da questa Italia, dalla sua politica, dai sindacati e se ne era andato in Svizzera anche e soprattutto per questo”. Così oggi neanche la notizia di un telegiornale nazionale, non è successo in Italia, non è un problema di sicurezza italiana, non è una cosa che ci riguarda.
E invece ci riguarda. Riguarda tutti noi, chi lo ha conosciuto e chi ne sente parlare oggi per la prima volta. Quella di Pietro è una storia che deve essere raccontata e anche se non abbiamo le armi per cambiare la situazione di tanti cantieri, almeno abbiamo la possibilità di non voltarci dall’altra parte, di raccontare la storia di Pietro e quella di tanti altri minatori e di quei mille morti l’anno (solo in Italia) che non devono fermarsi nel lutto di familiare e amici, ma che sono nel dolore di tutti noi!
Riprendo le parole di Simona, che cadono come pietre:
“Bisognerebbe trovare noi (tutti: ASL, sindacati, amministratori, politici, ricercatori, scrittori, altri lavoratori, cittadini) lo stesso coraggio di ricominciare a guardarli in faccia. Quando gli occhi sono stanchi, arrossati, brillanti, non quando sono spenti. Non quando sono morti. Altrimenti loro continueranno a lavorare e morire e noi a rimanere quello che siamo, <a href=”http://www.nazioneindiana.com/2008/10/03/noi-buoni-a-nulla/“>buoni a nulla</a>”.
A Pietro, a Simona, a tutti quelli che hanno sostenuto la lotta di questi invisibili costruttori del nostro progresso intriso di sangue e lacrime.
Katia e Niccolò.
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“Sono Pietro Mirabelli, operaio della TAV e rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS). Da dodici anni sono presente sul cantiere del Cavet (Consorzio Alta Velocità Emilia e Toscana) l’impresa che ha vinto l’appalto per la realizzazione del tratto che permetterà di collegare Bologna a Firenze. In questi anni ho visto decine e decine di operai infortunarsi, diventare invalidi e morire. Manca poco alla fine della realizzazione. Molti uomini e donne saliranno sui treni e non immagineranno quanto sangue è stato versato, quante madri hanno pianto per i loro figli e quante mogli sono rimaste sole. L’attenzione sugli infortuni sul lavoro è forte quando ci sono incidenti nei luoghi di lavoro, se ne parla una settimana, e poi tutto viene messo nel conservatorio della dimenticanza. Ma ogni giorno muoiono lavoratori in aziende sconosciute, nell’edilizia, nell’agricoltura”. Dal libro Morti bianche
http://sdp80.wordpress.com/2010/09/22/pietro-mirabelli-un-eroe/
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Mail di Simona:
“E’ morto stanotte Pietro Mirabelli in galleria in Svizzera. Un masso si è staccato dal fronte mentre una squadra lavorava con il jumbo. È morto in ospedale nel Canton Ticino per troppe lesioni interne. Aveva di recente lavorato per un breve periodo alla Toto a Barberino, dopo il periodo di cassaintegrazione in seguito alla chiusura dei lavori dell’Alta Velocità. Aveva infatti lavorato dal 2000 in CAVET dove era stato RLS, RSU fino alla conclusione dell’opera. Pietro era un minatore calabrese, era un lancista, quello che sparava cemento al fronte della galleria, che aveva lavorato in una miriade di cantieri, per le grandi opere, per la velocità e il benessere del Nord, mentre a Pagliarelle, nella sua terra, dovevi fare quindici minuti di macchina per raggiungere la prima edicola. Mai prima di lui ho conosciuto qualcuno che ha fatto della dignità del lavoro una propria insostituibile missione. Un testardo dei diritti che ultimamente era rimasto ferito da questa Italia, dalla sua politica, dai sindacati e se ne era andato in Svizzera anche e soprattutto per questo. Pietro era un figlio d’arte, come lui stesso si definiva. Il padre è morto di silicosi in seguito al lavoro di galleria. Pietro, anche se non ci credeva, era riuscito però a infrangere un silenzio sulla condizione dei minatori moderni e aveva conosciuto e incontrato una miriade di persone, coinvolgendo tutti nella sua battaglia a partire dal quarto turno e dalla sicurezza. Aveva anche fatto incontrare la comunità montana del Mugello e quella del Crotonese e il monumento nella piazza sui caduti al lavoro a Pagliarelle frutto dell’incontro di due terre, lo si deve a lui. Aveva letto le lettere dei condannati a morte della resistenza per scrivere la frase che sta impressa sotto quell’uomo di bronzo che accecato dalla luce esce dalla galleria fatta di pietra serena di Firenzuola, da quel suo Mugello a cui ha dato tanto, persino il nome della via di casa sua, ai piedi della Sila.
Ora, non venitemi a parlare di cultura della sicurezza, perché Pietro ne era l’essenza. Non ci crediamo che sia potuto succedere a lui proprio perché lui ha lottato contro tutto questo per tutti gli altri, per tutti noi.
Non riesco ad aggiungere molto, sono stata indecisa se scrivere e cosa scrivere, ma alla fine mi sono detta, zitta no. Zitti non possiamo stare. Dobbiamo informare e far girare la notizia, fra quelli che lo conoscevano, fra quelli che conoscono la sua storia, fra quelli che non lo conoscono. Pietro era un uomo e un simbolo di lotta, di quelle rare che sembrano non esistere più. Le morti sul lavoro restano sotto lo zerbino di case vuote e lasciano un dolore lacerante che ti toglie il fiato. Ti toglie l’anima se a morire è Pietro”
Simona Baldanzi
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Lettera di Pietro a Carlo Azeglio Ciampi
“Ci salvi Lei, Presidente!”. Ricorda? Mi ha guardato, ha avuto un moto di sorpresa forse: ero proprio io, quel rappresentante sindacale delegato alla sicurezza che Le aveva scritto poche ore prima per chiedere di poterLe parlare in occasione della sua visita. Avrei voluto raccontarLe i problemi che assillano ancora oggi la vita, e umiliano la dignità, di centinaia e centinaia di lavoratori aggiogati al ciclo continuo e a condizioni ambientali abbrutenti, qui nella civilissima Toscana, nelle viscere dell’Appennino, in mezzo all’acqua e al fumo, a mille chilometri da casa. Ma la Prefettura di Firenze mi informò che quel giorno Lei avrebbe avuto troppo poco tempo. E che tuttavia avrei potuto scriverLe, certo che Ella mi avrebbe letto. Ecco dunque ciò che un delegato sindacale eletto dai minatori della TAV Le chiede con un ultimo (creda: ultimo) lumicino di speranza. Dopo che tutte le altre strade si sono mostrate sbarrate. E’ un appello con le valigie in mano, signor Presidente. E’ un appello a intervenire. A chi le scrive è rimasta solo la scelta di lasciare il proprio lavoro, la propria rappresentanza, le proprie speranze. Il proprio stesso Paese”. E così si chiudeva, quella lettera che non passò certo inosservata, dopo che anche il cardinale di Firenze mons. Silvano Piovanelli aveva perorato in una omelia pasquale nella cattedrale di Santa Maria del Fiore la causa dei moderni ultimi: “Le scrivo, Presidente, con un piede dentro e uno fuori da quel cantiere di Vaglia, in provincia di Firenze, in cui lavoro da due anni e che anche Lei ha visitato in un giorno molto, molto particolare. Non credo che potrò resistere a lungo nel clima di ostilità che si è costruito intorno a questa lotta giusta e condivisa. Temo proprio di dover gettare la spugna. Di dovermene andare. Oso aspettarmi da Lei, Presidente, una risposta a questo ultimo grido di speranza, che Le indirizzo prima di essere costretto a cercare lavoro e dignità all’estero. Dove spero di trovare quel rispetto, quella civiltà, che la nostra Repubblica non sta dimostrando di saper garantire né a chi ha voce per protestare né ai mille protagonisti muti della costruzione di questa opera “pubblica” insieme alla quale si stanno distruggendo in realtà le loro vite, la loro dignità, le loro speranze. Ma in fondo anche i diritti di tutti. Tutte le volte che ripasserò dalla Toscana, signor Presidente, mi farà male al cuore pensare che cosa c’è dietro l’immagine di questa regione, fino a ieri così positiva e progressiva, per tutti noi nel nostro povero Sud! Cosa c’è dietro questa mitica “terra delle libertà e dei diritti”! Se non interverrà Lei, chi si potrà dire che la sta vincendo questa battaglia, signor Presidente? Lo Stato o la Prepotenza? Il Diritto o la Sopraffazione?”.
Con grande speranza e rispetto,
il minatore TAV
Pietro Mirabelli
http://associazioni.comune.firenze.it/idra/minatav.html
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Un ricordo di Marco Rovelli
http://www.nazioneindiana.com/2010/09/22/pietro-mirabelli-e-morto/