Wu Ming: reportage dalle Valle di Susa

FOLLETTI, STREGHE, SANTI E DRUIDI IN VAL CLAREA STORIE DEL MOVIMENTO NO TAV – Di Wu Ming – Pubblicato su Internazionale.it il 29 marzo 2013

 

Giacu! Giaaacuuu! I folletti del bosco cercano Giacu, «il compagno che ha il vizio di perdersi in Clarea».
Sbucano sul sentiero che costeggia il cantiere-fortilizio, si sparpagliano lungo il perimetro, chiamano l’amico a gran voce e battono sulle reti, sdeng! sdeng! sdeng! Raggi di luna fanno scintillare gli alti grovigli di barbed tape, «nastro spinato», o più appropriatamente razor wire, filo-rasoio. Messo lì per straziare le carni di chi provasse a scavalcare le inferriate, si stringerebbe meglio di un cappio intorno a gambe, braccia o torso del malcapitato. Non ha spine, ma vere e proprie lamette, quelle che voleva la Rettore per tagliarsi le vene, ploploploploploplo, promette bene questa notte da falene, gimme, gimme, gimme, senti come taglia questa canaglia, ma che poltiglia…
– Giacuuuuu!


Dentro il cantiere, rumore di corri-corri, ordini urlati con voce impastata dal sonno, crepitìo di walkie-talkie, avviarsi di motori, accendersi di fari.
Giacu è leggenda. Si è perso in Val Clarea un paio d’anni fa, durante o dopo lo sgombero armato della Libera Repubblica della Maddalena (27 giugno 2011). Da allora non si contano le spedizioni per cercarlo. Ogni tanto appare, lo avvistano che grida qualcosa, ma subito si rituffa nel bosco, tra i castagni. Cercarlo è un ottimo pretesto per fare una «passeggiata», come le chiamano qui: si spunta «in Clarea» a sorpresa, dopo scarpinate su sentieri che partono da Chiomonte, Giaglione o Ramats, diversi dei quali ancora ignoti all’occupante. Come dice un giovane intervistato nel libro A sarà düra (Derive Approdi, 2012): «piccoli gruppi mobili che attaccano contemporaneamente diversi punti del perimetro sono capaci di mandare in panne l’intero dispositivo di sicurezza».
Attaccare. Può voler dire tante cose: si va dal taglio delle reti a piccoli gesti di guerriglia comunicativa. In genere, si viene qui a far casino, come «Charlie» in Vietnam quando impediva il sonno agli invasori, ma c’è pure chi viene a pregare. E’ quel che fanno ogni santo giorno i «Cattolici per la vita della Valle»: vengono in pellegrinaggio fino alla statua votiva di Padre Pio (un Padre Pio No Tav!) piazzata a ridosso delle reti, accanto a un crocefisso di barre d’acciaio ripiegate, cinto da un’aureola di razor wire. E’ tutto materiale proveniente dalle reti e dai New Jersey. Un crocefisso costruito col sabotaggio.
Solo in Val di Susa il frate di Pietrelcina poteva diventare icona di antagonismo. Questo détournement si è rivelato una mossa più che azzeccata: l’orda di unni che non ha esitato a passare coi cingolati su un’inestimabile necropoli neolitica, di fronte a Padre Pio si è tolta l’elmo, come Attila di fronte a papa Leone. La statua li mette a disagio, non ha subito le ritorsioni di altri beni e simboli No Tav. Nessuno si è azzardato a rimuoverla.
Il movimento si è anche dotato di un beffardo inno-tormentone, Santo Padre Pio, da cantare sulla musica del Pulcino Pio: «In valle c’è un campeggio / in valle c’è un campeggio / e il campeggio resiste / e i gas fan mal / e le reti van giù / e l’idrante splash / […] / Santo Padre Pio / Santo Padre Pio / Santo Padre Pio…»
A che serve venire a pregare in Clarea tutti i giorni? Lo spiega Gabriella Tittonel del gruppo di preghiera: «La nostra è una presenza come quella dell’acqua quando scorre in un ruscello, vedi e non te ne accorgi, però quell’acqua lì sta limando. Sta limando, sta limando, sta limando delle situazioni. Questa nostra presenza non la capiscono e sta diventando complicata per loro: come fai a picchiare delle persone che vanno là solo per pregare? E’ un modo non-violento, ma assolutamente determinato, di portare avanti queste nostre ragioni. Continuiamo a spiegargliele tutti i giorni, finché possiamo; e pretendiamo che ci salutino, perché ormai ci conoscono. Andare tutti i giorni significa per noi che quelli che stanno dall’altra parte si riconoscano come persone umane e non le solite belve che vorrebbero essere. Per cui, se non ci salutano, noi li ri-salutiamo e se poi persistono a non salutare, pazienza.»
Infatti. C’è chi viene fin quassù a far niente se non dire «Buongiorno» e «Buonasera» ai poliziotti, e può sembrare strano ma è sufficiente, rammenta a chi è lì dentro che il mondo è qui fuori, in questa terra c’è una comunità in lotta, con tutto il suo calore e i suoi vincoli solidali. Basta poco, e il filo-rasoio appare rivolto nell’altra direzione: non sbarra il passo a chi è fuori, ma tiene prigioniero chi è dentro.
Tecnicamente, si chiama «alienazione»: essere separati dallo scopo del proprio lavoro. Già è alienante occuparsi di «ordine pubblico», dover pestare studenti che potrebbero essere i tuoi figli e fratelli minori, pestare operai che potrebbero essere… te. Ma occuparsi di «ordine pubblico» qui in Clarea… Giorno dopo giorno, notte dopo notte, settimane e mesi a proteggere i fantasmi, a presidiare il nulla…
Chi non conosce il progetto del TAV «Torino – Lione» (ma sarebbe meglio dire «Susa – Saint Jean du Maurienne») potrebbe stupirsi: in che senso «presidiare il nulla»? Pazientate, ci arriviamo.
Il sottotesto delle azioni di disturbo, grandi o piccole che siano, è: «Ma lo capite cosa vi fanno fare? Sì, è lavoro, ma c’è lavoro e lavoro. Sì, è dovere, ma c’è dovere e dovere.» E’ la «strategia del logoramento». La mettono in atto donne e uomini, operai e ceto medio, contadini e precari, giovani e meno giovani. I «folletti» che cercano Giacu, a quanto si dice, sono una compagnia di attempati signori, vecchi amici che insieme ne han passate tante. I loro blitz, in un altro contesto, sarebbero «zingarate», come quelle di Mascetti, Necchi, Perozzi, Melandri e Sassaroli, ma fra i No Tav, anche una zingarata è parte della lotta per difendere la propria terra.
I tutori dell’ordine sono sempre colti alla sprovvista. Una volta, raccontano i folletti in uno dei loro comunicati, i celerini «erano talmente rintronati che uno si è messo ad urlare: ‘Presto, presto, prendete i lacrimogeni!’ (i Folletti erano pochini e il soldatino, forse, pensava di trovarsi in Afghanistan tra i sanguinari Taleban).»
Un’altra volta, da dietro il recinto è spuntato un enorme idrante, Giacu ha urlato: – Mi la doccia la fasu nen, a fa trop freid! – e i folletti si sono dileguati, frustrando gli annaffiatori in divisa.
Ogni volta, Giacu scompare e torna a cingersi di mistero, ma ieri lo abbiamo visto. Era con noi e altre settantamila persone, forse di più, alla marcia da Susa a Bussoleno. Un grande pupazzo vestito di verde, in testa una cuffia azzurra e in mano una piccozza. Un folletto di montagna, un goblin. Lo attorniava un gruppetto di attempati signori. Vecchi amici. Sulla schiena, una scritta a caratteri gialli: «GIACU».
Giacu non è l’unica manifestazione notturna di paganesimo No Tav. Meno di un mese dopo lo sgombero della Libera Repubblica, si svolse un «sabba» di «streghe No Tav». Nel dispaccio ANSA si legge perplessità:
«GIAGLIONE (TORINO), 24 lug – Una sorta di ‘maleficio’ contro la recinzione del cantiere della Tav è stato lanciato in serata da un gruppo di donne No Tav nella zona del viadotto dell’autostrada del Frejus in Val Clarea. Le donne, in questa iniziativa che ha mescolato sarcasmo, goliardia ed esoterismo, con il calare del buio si sono avvicinate ai reticolati e, levando le mani al cielo, hanno salmodiato una cantilena sotto gli occhi della Polizia. Alcune indossavano un cappello a punta simile a quello delle streghe delle favole.» L’indomani, in tutto il Piemonte si avvertì una scossa di terremoto. Le streghe uscirono dal campeggio, si addossarono alla recinzione e gridarono ai poliziotti: – Siamo state noi! E’ la montagna che parla! Dice che non vi vuole! Altri riti pagani in valle, invocazioni alla Madre Terra, si devono alla poetessa cilena Rayen Kvyeh, ambasciatrice della lotta degli indios Mapuche contro le persecuzioni, le «grandi opere» che li cingono d’assedio e le discariche che avvelenano le loro terre. Oggi, nelle comunità Mapuche, capita di vedere sventolare bandiere No Tav.
A pensarci bene, sono pagani anche Asterix e Obelix. Nei fumetti, quando c’è un colpo di scena o una brutta sorpresa, imprecano e chiamano in causa «Toutatis» e «Belenos».
I due personaggi di Goscinny e Uderzo sono quasi onnipresenti nella comunicazione No Tav. L’immagine-simbolo dell’unità del movimento anche di fronte a retate, incarcerazioni e condanne è Obelix che con una «panzata» fa saltare le sbarre di una cella: «LA VALLE NON SI ARRESTA». Ai tempi della Libera Repubblica di Venaus (2005) e delle olimpiadi invernali a Torino, il movimento realizzò un intero albo pirata, Asterix e la tregua olimpica, coi balloons «détournati» alla maniera lettrista/situazionista. Qualcuno, scherzosamente, ha detto che Alberto Perino, uno degli storici portavoce della lotta No Tav, somiglia ad Abraracourcix, il capo-villaggio portato in giro su uno scudo. E se qualcuno fa notare che Perino non è un capo, gi rispondono: – Beh, nemmeno Abraracourcix comanda davvero, non riesce a farsi rispettare nemmeno dai portatori, guarda quante volte lo fanno cadere! E poi è tiranneggiato dalla moglie…
L’allegoria è persino ovvia: la Val Susa come ultimo territorio libero, angolo di mondo che resiste all’arrogante espansione di un impero, e per giunta lo fa gioiosamente. Questa gioia è un vero e proprio enigma che il nemico non sa spiegare. Qual è il segreto dei valsusini? Hanno un druido che somministra loro pozioni magiche? E c’è tra loro uno che è caduto nel paiolo da bambino? Chissà, forse è proprio Giacu.
All’eterogeneo pantheon ribelle No Tav, stiamo per aggiungere la tribù dei Mohawk e l’intera confederazione irochese. E’ il nostro omaggio alla lotta. Siamo venuti anche per questo. E’ la nostra quarta visita in valle e, finora, la più intensa.
E’ la mattina del 24 marzo e piove. Piove leggero, ma non ha mai smesso da ieri e anche la leggerezza alla lunga pesa, soprattutto se hai trascorso ore marciando sotto lo sgocciolìo di questa nuvolaglia grigio chiaro.
Ieri la marcia è stata un successo. Il serpentone era talmente lungo da non vederne la testa né la coda. Per tutto il tempo credevamo di essere a metà corteo, e invece eravamo ben più indietro. Mentre la testa era ormai a Bussoleno, la coda era appena partita da Susa. Otto chilometri. Settantamila, ottantamila, chissà quanti eravamo. Forse più dell’intera popolazione della Val di Susa, che a seconda di dove la si fa iniziare, conta tra le sessantamila e le settantamila anime.
Siamo arrivati in piazza quando i discorsi erano quasi finiti, c’erano «solo più» – come dicono in Piemonte – un centinaio di persone ombrellomunite. Abbiamo sentito solo gli interventi dei vigili del fuoco No Tav, di Paolo Ferrero del PRC e di un rappresentante del movimento No Tav – Terzo Valico.
Il pompiere, delegato USB, ha ribadito l’indisponibilità a utilizzi impropri: – Noi non facciamo servizio di ordine pubblico, tra i nostri compiti non può esserci la repressione.
Ferrero è stato accolto con rispetto, è un vecchio compagno di lotta ed è nato e cresciuto qui vicino, in Val Germanasca, pronuncia «A sarà düra» da nativo, ma in pochi anni il suo partito ha perso, o dilapidato, l’enorme consenso che aveva in valle. Quella contro il Terzo Valico è una lotta partita nel 2011 tra Liguria, Piemonte e Lombardia, ancora poco conosciuta a livello nazionale ma meritevole di grande
attenzione. Sotto la pioggia, incappucciati e fradici, aspettavamo i passaggi per andare a cena e
parlavamo con alcuni amici blogger e mediattivisti. Commentavamo la sensazione diffusa che, alla buon’ora, il movimento possa vincere. La propaganda pro-TAV ha perso per strada un sacco di pezzi e argomenti, non c’è ancora il progetto definitivo e i lavori arrancano. In valle il movimento è largamente maggioritario, anche volendo – per dirla con Alain Badiou – «misurarne l’impatto politico in base al numero inerte e separato», cioè contando i voti. Il voto «tattico» al M5S ha toccato punte del 58% (a Venaus) e del 46% (a Bussoleno). Ormai si registrano spaccature anche in seno al partito che più «fortissimamente volle» la grande opera. In valle il PD era già spaccato, ci sono state espulsioni di amministratori No Tav, ma a livello nazionale tutto sembrava immobile. Ora, come suol dirsi, «volano gli stracci».
Questo movimento che da vent’anni si oppone a un’opera inutile e priva di raziocinio, a una tratta ferroviaria chimerica, fantomatica, campata in aria, per realizzare la quale si invade un territorio e si trivellano montagne piene di amianto, uranio e radon, questo movimento [inspirare forte] non è mai stato così vicino alla vittoria.
C’è un problema: l’avversario non può ammetterlo. La megamacchina degli appalti, degli stanziamenti, dell’indebitamento e delle carriere e reputazioni in gioco non può frenare di colpo. Troppa gente sbatterebbe il muso sul parabrezza. Inoltre, significherebbe riconoscere una sconfitta enorme, certificare la vittoria del movimento, ammettere che ha sempre avuto ragione a opporsi allo scempio. La crisi di legittimità non risparmierebbe quasi nessuno degli apparati dello Stato. Si andrebbe ben oltre il solito sputtanamento della «casta», verso qualcosa di molto vicino a una crisi di sistema. Ergo, mantenere in moto la megamacchina – e mantenere le apparenze in Val Susa – è anche una questione di principio. Il dissenso non può, non deve avere ragione.
Con quegli amici incappucciati parlavamo di quel che dice Guido Fissore nel libro A sarà düra: «Se vinciamo noi, è la dimostrazione che si può anche vincere contro il Governo, armato, ricco, con i mezzi d’informazione eccetera. Non so, dobbiamo trovargli una strategia di uscita noi! Perché se no quelli non mollano! Dobbiamo trovargliela noi. Dobbiamo suggerirgli un’uscita onorevole… Credo che nei libri di strategia militare c’è sempre il fatto che devi dare al nemico una via d’uscita, altrimenti la guerra diventa troppo dispendiosa. Loro non la trovano, dobbiamo trovargliela noi!»
Più tardi, tutti insieme, siamo andati a cena al ristorante-pizzeria «Patrick» di Vaie («E’ una pizzeria No Tav!», ci hanno garantito). C’erano i suddetti mediattivisti e c’era Simone, il nostro cicerone in Val di Susa, il militante che ci ospitava a casa sua ad Almese. Senza di lui, non leggereste queste righe. C’era la sua compagna, Laura, e c’era Maurizio Piccione del comitato Spinta dal bass, che abbiamo tempestato di domande.
Tutti, pur non risparmiando critiche al Movimento 5 Stelle, lo hanno votato «tatticamente», come un tempo votavano Verdi o Rifondazione. Si trattava e si tratta di mostrare che anche un movimento come questo – che non crede alla delega decisionale, è abituato ad avere scarsissima rappresentanza e ha sempre misurato il proprio impatto in modi diversi da quelli «canonici» – può esprimersi sul terreno della rappresentazione elettorale, mandando segnali e aprendo contraddizioni.
Quel che è successo ieri mattina al cantiere in Clarea, la visita/ispezione da parte dei parlamentari M5S (e di alcuni di SEL), per giunta accompagnati da storici e criminalizzatissimi esponenti del movimento (persino Lele Rizzo del centro sociale Askatasuna!), è la prima crepa di un nuovo smottamento, un primo «impossibile» che si realizza.
Per dirla con Ilvo Diamanti, i No Tav stanno usando il M5S «come un autobus». Viaggiano aggrappati all’esterno, i piedi sui predellini, e salteranno giù all’ultima fermata utile. Non è loro interesse arrivare al capolinea, ovunque si trovi.
La decisione, facilitata dalla candidatura di un No Tav storico come Marco Scibona, non è stata comunque indolore. La coscienza dei rischi c’è tutta, e in valle non c’è attivista che non ti dica: – Il movimento può essere sconfitto solo da se stesso. – Prima di venire qui, avevamo timori in tal senso, più o meno gli stessi espressi dalla Federazione Anarchica Italiana (sezione torinese) nel volantino distribuito ieri alla marcia:
«La presenza di un così gran numero di santi in paradiso [gli eletti M5S in parlamento, NdR] potrebbe rimettere in gioco meccanismi di delega istituzionale […] Il mix di populismo, giustizialismo, demagogia e democrazia informatica della compagine grillina potrebbe fare più danni delle botte della polizia e delle inchieste della Procura torinese.»
Dopo la marcia e le numerose chiacchierate, e dopo che Perino ha tuonato dal palco che, Grillo o non Grillo, la lotta «si vince da No Tav, e si vince alle reti!», beh, la guardia non la abbassiamo, però abbiamo fiducia. Nel capitalismo le vif saisit le mort, ma un movimento che va avanti da vent’anni è quel genere di vivo che il morto potrebbe non riuscire ad afferrare. O, per dirla in altro modo, chi prova a mettere il cappello in testa ai No Tav, potrebbe perdere il cappello e basta, perché la testa non sta mai ferma. Del resto, anche gli anarchici del capoluogo, con tutte le loro preoccupazioni, chiudevano il volantino su questa nota:
«Chi arrogantemente dichiara ‘senza di me in Italia ci sarebbe una lotta popolare’, credendo di poter imbrigliare i movimenti di resistenza in una formula demagogica, imparerà a proprie spese che la voglia di libertà, la dignità del nostro presente e del nostro domani i No Tav non le hanno mai delegate a nessun padrino.»
Più prosaicamente, come ci ha detto un commensale: – In valle il rapporto coi grillini è diverso, anche il grillismo è diverso, perché si comportano in un altro modo. Per capirci, certe cose sui migranti, qui, si guardano bene dal dirle.
Mentre aspettavamo i caffè, abbiamo dato un’occhiata a quel che si diceva in rete. Tutti parlavano di Berlusconi, Berlusconi, Berlusconi. La notizia era il suo comizio in Piazza del Popolo a Roma. Sui media nazionali, la marcia da Susa a Bussoleno era una notizia minore, e dove se ne parlava, quasi tutto lo spazio era dedicato alla visita «grillina» al cantiere. Nessuna sorpresa, era tutto messo in conto. Consuete anche le battutine svaporate dei sì-TAV, degli autoproclamati opinion-leader e dei VIP del giornalismo che affollano i social network. Aveva molto successo una battuta di Vittorio Zucconi:
«Per manifestare contro TAV molti grillini viaggeranno in TAV. Gratis. Per loro fortuna non c’erano stati 5S x impedirla».
Retweet, faccine, grasse risate da parte di chi non ha la minima idea di cosa sia e a cosa presuntamente servirebbe la Torino – Lione. Pensano al trasporto passeggeri, alla Freccia Rossa, a Italo… Ma anche se si trattasse di questo, è ormai criminale ignorare che sull’Appennino toscoemiliano i lavori per l’alta velocità ferroviaria (proprio quelli per la Freccia Rossa) hanno causato enormi danni ambientali e devastazioni idrogeologiche. Gli Unni si sono mossi traforando le montagne per complessivi settantatre chilometri di gallerie, inquinando i terreni, smaltendo abusivamente i rifiuti, usando illegalmente acque di falda, prosciugando cinquantasette chilometri di fiumi e lasciando interi comuni senz’acqua. Ci sono state denunce e processi. Pochissimi giorni fa, il 19 marzo, la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza d’appello che assolveva i vertici della Cavet (gruppo Impregilo) e di diverse ditte subappaltatrici, alcuni gestori di cave e discariche, e intermediatori per i rifiuti. Una trentina di imputati. In primo grado erano stati condannati a svariati anni di carcere e a risarcire i cittadini per oltre centocinquanta milioni di euro.
– Eh, ma vuoi mettere che figata andare da Bologna a Firenze in venti minuti anziché in cinquanta come facevamo prima?
– Vero, si risparmiano mezz’ore preziose!
– L’unico neo è che adesso si viaggia al buio, sempre in galleria. Prima ci mettevi un po’ di più, ma vedevi la montagna, i boschi…
– Non mi farai mica il retrogrado? E’ il progresso, prendere o lasciare.
Poco dopo, tra il caffè e l’amaro, si parlava del «senso della frase» che hanno sviluppato i No Tav. «A sarà düra» è uno slogan bellissimo, efficace perché prosaico, ruvido, terragno, montanaro. Pone l’enfasi sulla fatica necessaria e lascia implicito l’esito finale. E’ il motto latino Per aspera ad astra, ma senza promettere le stelle.
Un altro slogan potente è «Si parte e si torna insieme». All’inizio era una mera, praticissima raccomandazione per le azioni dirette, come ci ha spiegato Simone: – Era per dire di non ritirarsi alla spicciolata, ognuno per conto suo. Bisogna aspettare che ci siano tutti, non lasciare indietro nessuno.
In poco tempo, questo precetto di base ha trasceso la dimensione concreta, adesso comunica un senso di unità. Si arriverà fino in fondo col consenso di tutti, non si staccheranno «avanguardie di retroguardia», e se si staccheranno, a un certo punto si guarderanno alle spalle e scopriranno che non le segue nessuno, perché il movimento avrà preso un’altra via.
Badiou direbbe che la rivolta No Tav ha abolito i nomi separatori, cioè quei nomi che servono ad additare alla «gente normale» un nemico, un diverso, un minaccioso fuori- norma. Nel caso dei movimenti, coi nomi separatori si punta a dividere i «Buoni» dai «Cattivi». «I violenti», «gli estremisti», «i Black Bloc» (più sovente scritto sbagliato, «Black Block»)… Questi sono i nomi separatori che pullulano nei resoconti mainstream e nei comunicati stampa dei politici.
Di lotte ne abbiamo viste e attraversate tante, abbiamo visto movimenti di massa consumarsi e afflosciarsi, rosicchiati al loro interno dall’azione dei nomi separatori. Solo con l’emergere della lotta No Tav abbiamo visto la trappola «buoni vs. cattivi» fare platealmente cilecca. La finta contrapposizione non è passata, anzi, quando il potere ha provato a giocare quella carta, il movimento ne è uscito rafforzato. «Siamo tutti Black Bloc» è un’altra frase topica, memorabile, penetrante, che ha messo in crisi i manipolatori.
Questi ultimi hanno cercato di creare «folk devils» nei modi più improbabili, spingendosi ben oltre il grottesco, come quando un ragazzo della valle, Marco Bruno, fu trascinato sulla ribalta nazionale nel ruolo di Nemico Pubblico, rappresentante supremo dei «violenti», solo per aver parlato a un poliziotto in tenuta antisommossa e avergli detto: «Sei una bella pecorella. Dovresti avere il numero di riconoscimento. Sai anche sparare?» Era parte della strategia di logoramento che abbiamo descritto, come la ricerca di Giacu, il sabba delle streghe, il battere sulle reti, gli insistiti buongiorno e buonasera… E poi, dacché esiste la disobbedienza civile i dimostranti si sono rivolti ai poliziotti in modo pedagogico o provocatorio, cercando di metterli in crisi, di perforare la corazza del servitore dello Stato ligio agli ordini.
Il 27 febbraio 2012, l’attivista No Tav e coltivatore diretto Luca Abbà salì per protesta su un traliccio dell’alta tensione, dove fu inseguito da un poliziotto. Per sfuggire al contatto, si arrampicò più in alto, prese la scossa e cadde da dieci metri d’altezza. Mentre era in rianimazione al Cto di Torino, il movimento occupò l’autostrada A32. E’ in quel contesto che Marco, in pausa dal lavoro, stanco, esasperato, iniziò il suo dialogo senza risposte col carabiniere. Una troupe della web TV del «Corriere della sera» riprese la scena e ne estrapolò un frammento, tagliando dieci minuti di discorso più pacato e, soprattutto, l’ultima frase: «Comunque, vi voglio bene lo stesso». In poche ore, la scena fece il giro di Internet e poi delle TV, dove rimase in heavy rotation per 48 ore. Marco divenne il Diavolo. Come sempre, si tirarono in ballo – a sproposito e fuori contesto – i versi di Pasolini sugli scontri a Valle Giulia, e tutta la politica si scagliò sul fellone:
«ROMA, 29 feb – I vertici del gruppo Pd in Senato, Anna Finocchiaro, Luigi Zanda e Nicola Latorre, hanno chiesto al Comando generale dell’Arma dei carabinieri di “poter stringere la mano in segno di solidarietà e di ringraziamento al carabiniere che ieri in Val di Susa è stato vigliaccamente insultato da un dimostrante privo di onore.»
Nei giorni seguenti, il carabiniere ricevette un encomio «per il lodevole comportamento tenuto a fronte della grave provocazione». Marco, invece, venne fermato, malmenato e portato via da uomini in divisa, che gli diedero due calci ai testicoli, dopodiché si prese una denuncia per ingiurie (il processo è appena iniziato) e ricevette decine di lettere e telefonate minatorie. Per due settimane lui, la sua compagna e il loro bimbo di due anni dovettero cambiare casa.
Il movimento si è stretto attorno a Marco e non lo ha lasciato solo. Ieri alla marcia in molti lo salutavano, gli stringevano la mano, lo abbracciavano, anche chi lo incontrava per la prima volta. La valle resta vicina a tutti i criminalizzati, i denunciati, gli arrestati, i prigionieri. Perché si parte e si torna insieme.
Alla cassa, mentre pagavamo, la TV trasmetteva un notiziario. Si vedevano i manifestanti pro-Berlusconi, qualcuno veniva intervistato. Alcuni di loro, orgogliosi, esibivano una maglietta con uno slogan… infelice. Ci è parso subito un tentativo non riuscito di dire qualcosa di simile a «Si parte e si torna insieme». Non riuscito, perché se ti manca il senso della frase, c’è poco da fare.
Sulle T-shirt c’era scritto: «Dove andrà uno, andremo tutti».
Con grande naturalezza e quasi all’unisono, gli avventori han suggerito la destinazione.
E’ la mattina del 24 marzo e piove. Simone e Laura ci accompagnano in Clarea. Prima del cantiere avvistiamo caprioli e, in mezzo al sentiero fangoso, incontriamo un’impassibile salamandra nera e gialla. Siamo arrivati in valle con due bandiere nativo-americane: la bandiera guerriera dei Mohawk («Kahnawake Warrior Flag») con l’indiano di profilo su sfondo rosso militante, e quella delle Six Nations irochesi, col pino e i rettangoli bianchi su sfondo viola, a simboleggiare le prime cinque tribù che molti secoli fa si unirono per iniziativa di Hiawatha il Pacificatore: Seneca, Onondaga, Cayuga, Oneida e Mohawk. Ad esse, nel XVIII secolo, si unirono i Tuscarora.
Per secoli gli irochesi si tramandarono oralmente una vera e propria costituzione, forse la più antica del pianeta: la Legge della Grande Pace, o Gayanashagowa. Ai loro usi, alle loro istituzioni e al loro concetto di proprietà si interessarono il Marx dei Taccuini etnologici e l’Engels de L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato. Si è scritto molto sulla loro democrazia diretta, consiliare e consensuale, e sull’influenza che il loro federalismo ebbe sulla Costituzione americana per il tramite di Benjamin Franklin. Riferimenti illuminanti agli irochesi si trovano in diverse opere dell’antropologo anarchico David Graeber.

Nel nostro piccolo, degli irochesi ci siamo occupati anche noi, in due libri e in diversi racconti. Negli anni zero abbiamo visitato riserve tra Stati Uniti e Canada, e siamo stati in pellegrinaggio sulle tombe di Joseph Brant Thayendanega (capo guerriero e traduttore in mohawk del Vangelo di Marco) e sua sorella Mary («Molly») Brant Johnson Degonwadonti. Dall’ultimo viaggio, nel 2008, abbiamo riportato le bandiere, in attesa di poterle usare. Ieri le abbiamo regalate a Simone e Laura, e adesso andiamo a sventolarle sul cantiere. Ci sembra appropriato: più volte i No Tav si sono definiti «indiani di valle».

Come tutti ci avevano anticipato, nel cantiere non sembra muoversi foglia. Silenzio, niente strepito di trivelle e macchinari. I bipedi che vanno raminghi fra i reticolati sono tutti armati e in divisa. Forse perché è domenica? Eppure, sulla carta, il cantiere non onora le feste comandate. Si lavora alacremente, sulla carta. L’impressione è quella di molti «solitari» in corso sugli schermi degli smartofoni. Non sorprende che i No Tav lo chiamino da sempre il «non-Cantiere». Documentarne la nullafacenza, giorno dopo giorno, è uno dei giochi preferiti del movimento, e ieri mattina la visita/ispezione dei parlamentari ha fornito la conferma: in due anni di presunta attività, tutto quel che si è fatto è un buco nella montagna di poche decine di metri. Il cantiere è in realtà un fortino, un presidio poco più che simbolico. Serve a far vedere che «tutto procede». E’ necessario far vedere che «tutto procede», in attesa che qualcuno trovi la famosa via d’uscita «onorevole».
La maggior parte degli italiani crede che i lavori del TAV siano già iniziati, ma il buco che stanno scavando non è già quello per cui passerebbe il treno, ma un semplice «cunicolo geognostico» finalizzato a studiare la conformazione delle montagne. Dovevano farlo a Venaus, il cunicolo, ma nel 2005 la protesta popolare li costrinse a cambiare versante del Massiccio d’Ambin, e a venire qui in Val Clarea, tra Chiomonte e Giaglione. Questo è un posto meno facilmente raggiungibile, o almeno lo pensavano tale. I No Tav ebbero la brillante idea di comprare i terreni, in modo da opporsi anche legalmente agli espropri. Anni di fronteggiamenti e rallentamenti, poi ci fu l’epopea della Libera Repubblica della Maddalena. Dall’estate 2011 il cantiere dovrebbe lavorare, e invece…
Quanto ai lavori veri e propri, quelli per il tunnel ferroviario, sono lontanissimi dal cominciare. Secondo le stime dell’Osservatorio Torino-Lione, se tutto va bene inizieranno nel 2014, termineranno nel 2035 (sempre se tutto va bene) e la linea inizierà a produrre vantaggi nel 2073, cioè tra sessant’anni. Una bella manifestazione di hybris, preconizzare la storia dei prossimi sessant’anni.
In realtà non c’è ancora il progetto esecutivo. Ogni richiesta di vederlo è rimbalzata contro un muro. Senza il progetto, nemmeno questo cantiere dovrebbe esistere. Intanto, anche in Francia i lavori sono lungi dal cominciare, mentre il cosiddetto «corridoio 5», che doveva portare da Lisbona a Kiev, è stato tacitamente accantonato, come dimostrano Luca Rastello e Andrea De Benedetti nella loro inchiesta Binario Morto. Alla scoperta del Corridoio 5 e dell’alta velocità che non c’è (Chiarelettere, 2013). Non ci sono i soldi, e sempre più esperti ritengono la mega-opera inutile e inutilmente dispendiosa.
Ancor più inutile e dispendiosa, oltreché nociva per l’ambiente e la salute dei cittadini, sarebbe la Torino – Lione, rimasta de facto «orfana» del progetto maggiore. All’inizio, nel 1989, la linea ad alta velocità fu pensata per il trasporto passeggeri, come le altre che si andavano progettando. Ma una linea Torino – Lione esisteva già, più volte ammodernata nel corso degli anni, e di passeggeri ne viaggiavano pochini. Si pensò allora di convertire il progetto al trasporto merci, e si diffusero previsioni trionfalistiche sui benefici che l’economia ne avrebbe tratto. Peccato che, su quella direttrice, il traffico merci sia in costante calo da una quindicina d’anni. La «vecchia» Torino – Lione trasporta ogni anno tre milioni di tonnellate di merci, ma potrebbe trasportarne sei o sette volte tanto.
Se le merci sono poche, il treno c’è già e il Corridoio 5 sta tra il coma profondo e la morte clinica, che senso ha spendere miliardi e miliardi di euro (che non ci sono) per faraonici trafori, per giunta in montagne zeppe di minerali nocivi e radiotossici? Già adesso, in valle, si respira amianto oltre i limiti di legge, e per beccarsi un mesotelioma basta inalare una sola microfibra. A che pro sottrarre soldi pubblici a destinazioni ben più utili, occupare militarmente un territorio, distruggere colture, picchiare e mettere in galera la gente, inimicarsi un’intera popolazione, indebitare i posteri…?
A queste sensatissime obiezioni, fatte anche da docenti del Politecnico di Torino, ingegneri, geologi, esperti di economia dei trasporti etc., la lobby delle Grandi Opere ha risposto sempre e solo in modo ideologico, quando non platealmente febbricitante. E’ il progresso! Siete dei reazionari!
In realtà le cose sono molto più terra-terra: ci sono soldi già stanziati e spesi, impegni da «rispettare», appalti, subappalti, nomi e cognomi messi in gioco, mani che stringono scroti… Solo che, con il passare dei mesi e degli anni, il progetto appare sempre più implausibile ed evanescente.
Questo stallo, questo paesaggio di facciate senza edifici, il movimento No Tav lo descrive da anni a colpi di dossier, perizie, dati, infografiche e documenti riservati resi pubblici da Anonymous. Ormai il movimento ha acquisito sempre più competenze tecniche e scientifiche. Gli specialisti giunti in valle hanno stimolato l’autoformazione e oggi il militante medio ha cognizioni di causa che molti pseudo-esperti concionanti sui giornali nemmeno si sognano. La disinformazione è forte, gli interessi in gioco sono trasversali, la sconfitta non può essere ammessa, lo sanno tutti che a sarà düra, ma questo movimento può vincere.
Ci vedono da sotto ed escono a identificarci. Arrivano in undici: un digos e dieci agenti con caschi e manganelli. Sguardi mesti, musi lunghi. Consapevolezza che la gioventù passa e va e non torna più, ogni domenica è una domenica in meno che ti resta e l’hai trascorsa qui.
Diamo loro i documenti. Mentre li controllano, Simone inizia il suo lavoro ai fianchi del digossino:
– L’altro giorno, ad Avigliana, un suo collega mi ha detto che non ne potete più nemmeno voi.
– Beh, non è che lo facciamo perché ci piace… – Sicuramente vi piacerebbe passare le giornate in un altro modo. – Eh… – O essere impiegati in qualcosa di più utile. L’anno scorso, su 160.000 uomini-giorno
impiegati dalle forze dell’ordine in provincia di Torino, 130.000 erano qui in valle. Cioè l’80% del lavoro delle forze dell’ordine serve a difendere il TAV.
– Che possiamo farci, è dovere… – Sì, ma c’è dovere e dovere.
Finalmente ci danno i documenti e li lasciamo andare. Tornano, tristi e curvi, nella loro prigione a cielo aperto. Noi saliamo per un altro centinaio di metri, poi apriamo le bandiere indiane e le sventoliamo sotto questa pioggia fine fine.
– La prossima volta le alzeremo là dentro. – dice Simone – Sulle macerie del cantiere.
Il mattino dopo, mentre ancora dormiamo, riprendono le azioni dirette. A Chiomonte, decine di attivisti bloccano diversi veicoli e una gru diretti in Clarea.
La lotta si vince così, da No Tav. Con Padre Pio, se proprio serve, ma senza contare su santi in paradiso.

 

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